Se il nervo è intrappolato nel tunnel, vale la pena farselo sbrigliare; ma se si preferisce stare alla larga dai chirurghi, la differenza, alla fine, non è poi così rilevante. È salomonico il verdetto dello studio pubblicato oggi su Lancet. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Washington a Seattle ha assegnato casualmente all’intervento chirurgico o a un trattamento di altro tipo un centinaio di persone con sindrome del tunnel carpale.
Si tratta di una condizione frequente, che nelle sue prime fasi si manifesta solo con formicolii e sensazione di gonfiore alle prime tre dita della mano, soprattutto di notte e al mattino, ma che si può evolvere dando un dolore al polso che si irradia a tutto l’avambraccio. Alla fine il nervo intrappolato può cominciare a far fatica a trasmettere i suoi messaggi, e si può osservare una riduzione della forza e della sensibilità. «In questi casi l’intervento diventa di rigore» spiega Jeffrey Jarvik, che ha coordinato il lavoro. «Prima che si arrivi a questo punto, però, si può anche provare a trovare sollievo dai disturbi con fisioterapia e ultrasuoni».
È quello che hanno provato a verificare gli studiosi statunitensi. «In effetti, dopo tre mesi dall’operazione, si osservava un miglioramento dei sintomi e della funzione della mano che si faceva sentire ancora dopo un anno» racconta l’autore, che aggiunge: «Tuttavia, alcune delle persone operate hanno riferito che il loro problema non si era risolto e oltre il 60 per cento di coloro in cui si sono provati altri metodi di cura non ha avuto bisogno, in un secondo tempo, di ricorrere al chirurgo».
Se quindi la chirurgia si conferma utile, non lo è tanto da diventare una scelta obbligata. «Oltre a una valutazione dei costi dei due diversi approcci» commenta Christina Gummesson, dell’Università di Lund, in Svezia, «occorre tener conto anche delle preferenze individuali, che di volta in volta possono cambiare sulla base di motivazioni personali molto diverse tra loro».
Le ragioni che spingono a farsi operare o no sono state indagate in un altro studio effettuato in Corea del Sud su una serie di donne a cui, dopo una diagnosi confermata all’elettromiografia, era stata consigliata una soluzione chirurgica. Il tempo di attesa era di circa un mese e durante questo periodo una trentina di loro ha avuto un ripensamento e si è tirata indietro. «La maggior parte aveva cambiato idea perché nel frattempo i disturbi erano migliorati» dice Moon Sang Chung, chirurgo ortopedico dell’Università di Seul, nella Corea del sud, che ha coordinato il lavoro, «sebbene molte avessero citato anche la paura del dolore, i problemi legati alla temporanea inabilità, i costi dell’operazione».
Allo stesso modo, quelle che invece erano arrivate fino in sala operatoria lo avevano fatto per il disagio e i limiti provocati dalla malattia, non tanto perché il chirurgo della mano glielo avesse prescritto, gli esiti dell’elettromiografia fossero preoccupanti o temessero danni a lungo termine. In altre parole, non c’entrano tanto i risultati più o meno favorevoli degli esami o la paura che la malattia progredisca.
Il criterio con cui le donne decidono di farsi operare per una sindrome del tunnel carpale o, viceversa, preferiscono tenersela, è il più banale del mondo: dipende solo da quanto dà fastidio il nervo mediano intrappolato tra ossa e legamenti a livello del polso. «La conclusione della nostra inchiesta non era però così ovvia» precisa Chung. «Ad altri interventi ci si sottopone sulla base di indagini che mostrano anomalie o per evitare che un problema si possa aggravare». In questo caso, invece, si cerca solo sollievo.
Roberta Villa – www.corriere.it
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